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Una nuova “primavera dei popoli”

A mo’ di editoriale

04/03/2011

A mo’ di editoriale

L’anno 2011 è iniziato con un’ondata di rivolte e mobilitazioni operaie e popolari. Malgrado l’epicentro del movimento di massa sia nel mondo arabo e musulmano, dove sono in corso vari processi rivoluzionari, tutto ciò comincia ad avere ripercussioni in altre regioni del pianeta, anche se si esprimono con azioni con minor grado di profondità e radicalizzazione. Sullo sfondo dello sciopero generale in Guadalupa nel 2009, delle manifestazioni e degli scioperi in Grecia nel 2010 e della resistenza dei lavoratori e della gioventù liceale in Francia contro la riforma delle pensioni di Sarkozy, questa ondata di lotta sembra annunciare l’inizio di un nuovo ciclo ascendente della lotta di classe, in un quadro di crisi economica internazionale che perdura ormai da tre anni.

Il vortice di azione di massa nel mondo arabo e musulmano

Un ripasso dei grandi eventi mostra il corso vertiginoso che ha assunto l’ingresso in scena delle masse nel mondo arabo.

Tunisia, 17 dicembre 2010.Un giovane laureato, ma che si guadagnava da vivere come ambulante, decide di immolarsi in segno di protesta contro la miseria in cui il governo dittatoriale di Ben Ali lo ha condannato come la stragrande maggioranza dei giovani e dei lavoratori disoccupati. Questo tragico evento innesca una sollevazione operaia e popolare di massa e il 14 gennaio 2011, Ben Ali, che era rimasto al potere per 23 anni, con il sostegno della Francia, ex potenza coloniale e principale partner commerciale, e degli Stati Uniti che avevano apprezzato i suoi servigi nella "guerra al terrorismo", viene rovesciato. La caduta del Ben Ali non riesce a calmare le acque: domenica 20 febbraio migliaia di tunisini si muovono di nuovo chiedendo la caduta del "governo di transizione" guidato da Mohammed Ganouchi e rivendicano la formazione di una assemblea costituente. Il processo tunisino ha scatenato una ondata rivoluzionaria che si è estesa a macchia d’olio in tutto il Nord Africa, la penisola arabica e nel mondo musulmano. Le strade dello Yemen, della Giordania, del Bahrain, del Marocco, dell’Algeria, si sono riempite di giovani, lavoratori, donne, poveri delle città , disoccupati, che chiedevano la fine delle dittature dispotiche e dei sovrani, che per decenni hanno mantenuto con il pugno di ferro le condizioni più brutali di oppressione, che hanno permesso di imporre la privatizzazione, la deregulation e il lavoro precario a favore delle élite locali e delle grandi multinazionali transnazionali.

Egitto, 25 gennaio 2011. Milioni di persone, gran parte giovani, senza lavoro o con salari da fame, scendono nelle strade del Cairo, di Alessandria e di altre città , chiedendo le dimissioni di Hosni Mubarak, uno dei principali alleati degli Stati Uniti e di Israele, al potere dal 1981. Il dittatore resiste. I manifestanti rimangono sulla piazza Tahir. L’esercito resta in attesa senza reprimere e intanto nei colloqui con Mubarak e Obama discute come organizzare la fine della dittatura senza far trionfare le masse. Mentre continuano le manifestazioni e l’esercito resta in disparte senza reprimere le proteste, Mubarak cerca di mantenere il potere malgrado la pressione delle masse. Fino a che una massiccia ondata di scioperi paralizza i principali settori dell’economia, fa precipitare Mubarak l’11 febbraio. L’esercito, che era il fulcro del regime ed è rimasta intatto come pilastro dello Stato, assume il potere. Settori significativi della classe media sembrano credere alle promesse di libertà democratiche previste dal governo della giunta militare, ma i lavoratori, incoraggiati dalla vittoria, estendono gli scioperi sfidando il divieto di sciopero e di riunione sindacale che il potere militare cerca di imporre. Sono riusciti a cacciare il dittatore e ora vogliono migliori salari, condizioni di vita, libertà di associazione e chiedono che se ne vandano gli amministratori delle aziende nominati da Mubarak. La situazione è ancora aperta: esiste la possibilità che l’esercito, sostenuto dall’imperialismo, la borghesia e le sue variabili politiche, riescano a superare con successo la "transizione" e stabilizzare un’ascesa di "reazione democratica”, ma è anche possibile che la dinamica di scontro con la classe operaia attiri ancora nell’arena della lotta ampi settori di massa. O che la giunta che si è fatta carico di elaborare una nuova costituzione senza la partecipazione popolare, conceda molto poco e spinga finalmente anche per questa questa via, di nuovo le masse in piazza.

Yemen, 28 gennaio. Decine di migliaia di persone a Sanaa, la capitale e in altre città , chiedono le dimissioni di Ali Abdullah Sale, al potere da 33 anni. Questa è la prima di una serie di proteste che sono proseguite, nonostante la dura repressione del regime. Le ragioni della lotta contro la dittatura yemenita sono profonde. Sale ha assunto il governo dello Yemen del nord nel 1978 e dal 1990 ha continuato a presiedere la Repubblica dello Yemen, in seguito alla riunificazione capitalista del paese del 1990. Questo alleato degli Stati Uniti e della monarchia saudita sta conducendo da anni una sporca guerra contro la popolazione sciita del nord e nei confronti di un movimento separatista del sud. Sale governa il paese più povero del mondo arabo, dove quasi metà della popolazione vive in povertà e la disoccupazione colpisce il 35% degli abitanti. Tuttavia, questo piccolo paese ha una importanza strategica per le attività militari segrete che gli Stati Uniti portano avanti sul suo territorio, affermando di voler perseguire i combattenti di Al Qaeda e cercando di realizzare un ricambio nel governo con leader dell’opposizione in sintonia con ii suoi interessi.

Libia, 15 febbraio. La repressione contro la mobilitazione antigovernativa nella città di Bengasi, nell’est del paese, ha scatenato una insurrezione locale contro il regime di Gheddafi. Le forze di sicurezza che si sono schierate dalla parte dei manifestanti non erano solo armi ma controllavano anche la città . Quando però la protesta è giunta a Tripoli, capitale e sede del potere Gheddafi la risposta è stata brutale. Sono stati bombardati i quartieri e si è sparato sui dimostranti. Un paio di giorni di repressione hanno lasciato sul selciato centinaia, se non migliaia, di morti e dispersi. Gheddafi, un colonnello che si fa passare per "terzomondista" diventato neoliberista, amico di Bush, Blair e Berlusconi, che è al governo dal 1969 usando per sé e per la sua famiglia allargata molti dei proventi del petrolio, ha deciso di resistere al potere con la forza delle baionette. Indubbiamente, per il grado di violenza della repressione da parte del regime e il carattere radicale della rivolta, il processo è più acuto, con forti elementi di decomposizione statale, che aprono la prospettiva di una guerra civile dall’esito incerto, o addirittura a una situazione di caos con scontri inter-tribali in un paese che è il dodicesimo più grande esportatore di petrolio. Le potenze imperialiste, che nell’ultimo decennio hanno fatto buoni affari con Gheddafi, hanno pensato di opporsi al dittatore, a differenza dell’Italia che ha forti interessi nella sua ex colonia, con la speranza che forse la sua caduta possa aprire altre opportunità per i loro interessi, a condizione che si riesca a evitare uno scenario di disgregazione e di caos, ma non si può escludere che questa prospettiva sia usata come pretesto per dispiegare una forza militare legata alla NATO. Da parte sua, l’esercito egiziano, che deve gestire la propria "transizione", è preoccupato che la frattura nell’esercito libico produca una situazione incontrollabile in Africa settentrionale. Quindi, continua a sostenere Gheddafi. La rivolta in Libia, ha chiarito il ruolo dei governi che si sono allineati a difesa del dittatore come ha fatto Daniel Ortega, o che finora hanno taciuto sui massacri come nel caso di Chavez. Incluso Fidel Castro, che ha giustificato Gheddafi in nome di una presunta "resistenza all’imperialismo".

Bahrain, 16 febbraio. Le forze di sicurezza aprono il fuoco su una manifestazione che, ispirata dalla Tunisia e dall’Egitto aveva chiesto migliori condizioni di vita, uccidendo due manifestanti. Questo piccolo paese, con il 70% della popolazione sciita e il 30% sunnita, è governata dalla fine del XVIII secolo da una dinastia monarchia sunnita legata all’Arabia Saudita. Il motivo principale della ribellione è l’emarginazione della maggioranza sciita, che costituisce la maggior parte della della classe operaia del paese, dalla struttura del potere politico. Malgrado il peso demografico e politico del paese sia meno rilevante, la crisi in Bahrain può avere conseguenze imprevedibili per l’imperialismo e la monarchia dell’Arabia Saudita. Il Bahrain ospita la sede del quartier generale della Quinta flotta dei marines, che è indispensabile per il funzionamento delle forze di occupazione in Iraq. Può anche essere una fonte di ispirazione per la popolazione sciita dell’Arabia Saudita, concentrata nelle province orientali petrolifere. In poche settimane, questa azione esplosiva del movimento di massa in Nord Africa e nella penisola araba, prodotta dall’impatto della crisi economica, in particolare dal rialzo dei prezzi dei prodotti alimentari, e dall’odio contro regimi dittatoriali e filo-imperialisti, sembra aver incoraggiato la resistenza anche oltre i confini di questa regione.

Le proteste iniziano a diffondersi in altre parti del mondo

A Oaxaca, in Messico, è apparso di nuovo lo spettro della Comune del 2006. Gli Insegnanti sono tornati in piazza per protestare contro un provvedimento del Presidente Calderón favorisce l’istruzione privata. Il 15 febbraio, insieme ad altri settori popolari, ha impegnato per sette ore le forze di polizia e di sicurezza in duri scontri e il giorno dopo c’è stato uno sciopero e una mobilitazione di massa per condannare la repressione e chiedere le dimissioni dei funzionari pubblici.

In Bolivia, i lavoratori e i settori popolari hanno partecipato in maniera massiccia alla giornata di protesta indetto dal Central Obrera Boliviana (COB), il 18 febbraio, contro gli effetti inflazionistici del fallito tentativo di "gasolinazo" di Evo Morales e per l’aumento dei salari.

Sebbene il ruolo della COB sia quello di essere una valvola di decompressione della lotta, si tratta di una conferma che il malcontento contro le misure impopolari del governo del MAS tende ad esprimersi attivamente nella mobilitazione. Anche in America, dove ciò che sta primeggiando sulla scena politica è l’emergere dell’estrema destra raggruppata intorno al Tea Party, l’offensiva del governatore repubblicano del Wisconsin, Scott Walker, che mira a liquidare il ruolo dei sindacati dei dipendenti pubblici nella contrattazione collettiva, sta determinando una forte risposta da parte dei lavoratori del settore pubblico e degli insegnanti, che si sono mobilitati, il 23 febbraio, in decine di migliaia assieme agli studenti, e con azioni di solidarietà in vari stati. Anche se la direzione dei sindacati e il Partito Democratico hanno giocato un ruolo nel controllare il movimento, questo è un sintomo importante che forse preannuncia il risveglio della classe operaia americana, duramente colpita dalla crisi economica e che ha subito forti arretramenti dal 1980.
Mentre scriviamo queste righe, i lavoratori e i giovani in Grecia sono tornati a lottare contro i piani di aggiustamento imposti dall’Unione Europea e dal FMI, scontrandosi duramente con la polizia nelle strade di Atene.

Sono azioni quasi simultanee di lotta di classe che non si vedevano più da molto tempo. Questi eventi stano già avendo conseguenze economiche. Il processo nel mondo arabo e musulmano sta portando all’aumento dei prezzi del petrolio e di altre materie prime come il grano. Il destino della Libia, un importante fornitore di petrolio per diverse potenze dell’Unione Europea, approfondisce i timori dei mercati internazionali che una crescita incontrollata del petrolio inneschi nuovi filoni della crisi economica internazionale. Inoltre, l’importanza della regione per gli interessi geopolitici degli Stati Uniti, la perdita di alleati importanti come Mubarak, può aggravare la crisi di egemonia dell’imperialismo.

All’inizio di un nuovo periodo

Dopo 30 anni di restaurazione borghese, stiamo assistendo alle prime fasi di un nuovo periodo storico in cui le masse ritornano in scena, anche se ancora con confini e con una portata non definita.

Le analogie storiche, anche se per definizione imperfette, sono utili per analizzare i nuovi processi. A questo proposito, abbiamo usato l’analogia della restaurazione borbonica, al fine di comprendere il significato più profondo della controrivoluzione neoliberista. Anche se nessun processo storico si ripete, l’attuale ondata può essere confrontato con la cosiddetta "Primavera dei Popoli". Storicamente, ai definisce "Primavera dei Popoli" quell’ondata rivoluzionaria che iniziò in Francia nel febbraio 1848 e si diffuse rapidamente in molte parti della Prussia e della Germania, dell’Impero austriaco, dell’Ungheria che era sotto il suo controllo, della Polonia, dell’Italia e di altri popoli dell’Europa centrale, nel quadro della crisi economica che era esplosa nel 1846.Questa ondata iniziò ad essere contenuta con l’uscita dalla crisi economica a metà del 1850 e si concluse in Germania nello stesso anno e con il colpo di stato di Luigi Napoleone Bonaparte in Francia il 2 dicembre 1851.

Il limite di questa analogia storica è che a differenza del diciannovesimo secolo, questa nuova “Primavera dei Popoli" si produce nell’epoca imperialista di crisi, guerre e rivoluzioni. E non siamo neppure nella stessa situazione in cui il proletariato moderno iniziò la sua prima grande irruzione rivoluzionaria (come fu l’insurrezione del giugno 1848 in Francia), ma con una classe operaia che ha avuto l’esperienza della rivoluzione e della controrivoluzione del ventesimo secolo.

Tuttavia, noi preferiamo l’analogia con il periodo, che produsse la fine del periodo della Restaurazione europea apertosi con la caduta di Napoleone nel 1815, che con l’ascesa iniziata nel 1968 che fin da principio vide masse proletarie più centrali nel processo che non provenivano da un lungo periodo di declino. Il processo attuale si porta sulle spalle le conseguenze di tre decenni di restaurazione borghese e di questo non si può non tener conto, al fine di capire che questo ciclo di lotta di classe che si sta producendo è senza dubbio tortuoso ma anche difficile da contenere, dato il contesto di crisi del mondo capitalista.

Nel ’68, quando i giovani furono protagonisti ovunque con la presenza di un’avanguardia radicalizzata che si veniva forgiando nella lotta contro la guerra in Vietnam in vari paesi, tuttavia si era ancora dentro il boom economico del dopoguerra (la crisi si presenterà con forza solo nel 1973) e si evitavano la crisi al prezzo di un enorme indebitamento degli stati. Questo per dire che la crisi attuale è molto più profonda di quella che si presentò alla metà degli anni ’70.

La lotta per costruire una direzione rivoluzionaria

Le potenze imperialiste sono state inizialmente sorprese dagli eventi che hanno colpito i loro alleati e i loro agenti più importanti come Ben Ali in Francia o Mubarak negli Stati Uniti. L’ipocrisia imperialista è stato chiaramente evidenziata, screditando ulteriormente i discorsi sulla difesa dei "diritti umani". Per oltre trent’anni, gli Stati Uniti, la Francia, l’Italia, la Gran Bretagna, e altri hanno sostenuto dittature brutali, da Mubarak alla monarchia saudita.

Dopo lo sconcerto iniziale, la politica di Obama e dei paesi imperialisti dell’Unione Europea è tesa a preservare quanto più possibile dei regimi contestati dalle masse, mentre si presenta discorsivamente a favore dei manifestanti al fine di imporre "transizioni-patacca" di ricambio, cercando di non alterare sostanzialmente le loro posizioni geopolitica e la loro attività . Per quanto riguarda l’Egitto ciò implica, in primo luogo, mantenere gli accordi con lo Stato di Israele, e la subordinazione politica alle esigenze yankees. Pertanto, nelle prossime settimane e mesi nel mondo arabo musulmano, si definirà un processo in cui i lavoratori e le masse lavoratrici imporranno le loro esigenze e raggiungeranno la libertà dal dominio imperialista e dei suoi partner locali, oppure, se questi ultimi saranno in grado di contenere il malcontento popolare e la caduta dei regimi dittatoriali, verrà ceduto il passo a forme più o meno democratico borghesi, che però non mettono in discussione l’ordine imperialista, come è accaduto durante gli anni ’80 in America Latina, con la differenza rispetto all’America Latina, che in questa regione non si giungerà a ciò dopo sconfitte storiche come furono i golpe controrivoluzionari che chiusero la fase di ascesa degli anni ’70.

L’elemento che lavora contro questa prospettiva è che siamo in un contesto di crisi globale del capitalismo che rende difficile fare concessioni sostanziali che possano mettere il coperchio alle rivendicazioni operaie e popolari. Inoltre, la natura autocratica della maggior parte dei regimi determina il fatto che le politiche di mediazione dell’imperialismo siamo molto fragili.

Dal punto di vista del movimento operaio, la debolezza principale è, come abbiamo segnalato, la scarsa soggettività rivoluzionaria con cui essa entra nel processo, dopo tre decenni di restaurazione borghese. Le masse, in particolare i settori avanzati, entrano nella lotta senza una chiara strategia per sconfiggere il potere della borghesia e per imporre un proprio Stato, rendendo impossibile portare la lotta fino alla conclusione. Né, per il momento sembra avere espresso una chiara coscienza anti-imperialista, anche se i regimi e i governi contro cui sono scatenate sono apertamente filo-imperialisti e che in passato queste masse abbiano espresso la loro rabbia nei confronti di costoro per il loro sostegno alla guerra in Iraq o per la loro complicità negli attacchi sionisti contro la Palestina. Facendo leva su tali debolezze l’imperialismo e le classi dominanti locali, cercano di contenere questi processi e di deviarli.

Tutto dipende se durante questo periodo la nuova avanguardia operaia e giovanile sarà in grado di costruire vere organizzazioni rivoluzionarie al fine di portare i lavoratori, i contadini poveri e tutti gli sfruttati, al potere.
Nella regione che oggi è l’epicentro dei disordini, anche se il movimento operaio e popolare ha una tradizione nella lotta contro l’imperialismo, le forze marxiste rivoluzionarie sono storicamente deboli, con la parziale eccezione dell’Algeria. Tuttavia, gli eventi che lଠstanno accadendo si ripercuoteranno senza dubbio tra i lavoratori, i giovani e i settori popolari di tutto il mondo. Il ritorno sulla scena dell’azione di massa indipendente favorisce la costruzione di partiti rivoluzionari operai, in particolare nei paesi in cui la lotta di classe non solo ha una tradizione, ma ha mantenuto livelli elevati nel corso degli anni, insieme con una forte presenza e tradizione trotskista come la Francia, dove i nostri compagni hanno dato vita al Collettivo per una Tendenza Rivoluzionaria (Piattaforma 4) all’interno del Nuovo Partito Anticapitalista (NPA) e in Argentina, dove il PTS (Partido de los Trabajadores Socialistas) sta facendo passi importanti per l’organizzazione degli operai d’avanguardia e dei giovani. Gli eventi che stiamo vivendo non fanno altro che moltiplicare le nostre energie di lotta per partiti rivoluzionari insediati nella classe operaia e per ricostruire la Quarta Internazionale, il partito mondiale della rivoluzione sociale.

23 febbraio 2011

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